Buon lunedì!
E buon 2021! Quest’anno inizia con tante novità. Avevo detto che sarebbe uscito qualcosa di nuovo, e così è. Da qualche settimana, su questa newsletter, ho aggiunto un modulo in cui descrivo quali azioni ha senso tenere d’occhio in base ai trend di attualità. Dopo alcuni post sui social, mi sono reso conto che questo tipo di analisi ha effettivamente un valore, ma lo ha solo se posto contenuti con costanza, molto più spesso.
Ho così deciso di portare questa newsletter ad un livello superiore e di renderla parzialmente a pagamento, ma solo a partire da marzo / aprile: nel frattempo, ho lanciato un canale Telegram, Millennial Investing, con lo scopo di descrivere strumenti e decisioni alla base del mio +114% di profitto sugli investimenti nell’intero 2020. Ci sono già 20 iscritti: ci si può abbonare, in offerta lancio a 3€ al mese (fino a martedì), da qui:
Nota: non dispenso consigli finanziari, né di investimento. Racconto cosa uso e come prendo le mie decisioni sugli investimenti, che mi hanno portato a buoni risultati. Poi ognuno decide per sé.
Nel frattempo, In tre parole cambierà pian piano forma e, per i prossimi due mesi, arriverà una volta al mese, per darmi tempo di organizzare Millennial Investing.
Buona lettura!
📰 In pillole (di link)
Amazon acquisisce i diritti per trasmettere la Champions League (su Prime Video)
Telegram è pronta a monetizzare
I lavoratori di Google fanno un sindacato
Tutti i social bannano Trump e Parler, l’unico social network che non lo banna, viene rimosso da App Store e Play Store
Questo numero è stato scritto dopo aver selezionato gli argomenti più interessanti in 93 articoli.
È sempre più frequente il dibattito sulla vera natura del web: soprattutto in questi giorni, dopo che Trump ha aizzato i suoi sostenitori in quello che è stato definito uno dei giorni più bui della storia degli Stati Uniti d’America e, in generale, della democrazia. Come è possibile che internet sia così importante per la circolazione del libero pensiero, e allo stesso tempo sia il posto più insicuro in cui stare?
Beh, nasce tutto dal fatto che, per la popolazione che usa il web e non ci costruisce sopra, internet = web = app = social. E non è così, nemmeno vagamente.
Mi sembra doveroso, dato che non c’è nient’altro di cui parlare in queste settimane, approfondire la questione dal punto di vista di chi (io) ha studiato internet a tutti i livelli (con tutte le lacune del caso, di cui vogliate scusarmi).
La libertà di internet, e del web
Internet, di per se, è un posto libero. È per questo che da qualche anno la parola non richiede più la lettera maiuscola. Non è più uno strumento, ma una pubblica utilità (pensate se dovessimo scrivere Elettricità o Gas, è lo stesso ragionamento).
Tutti devono potersi connettere a internet, e il modo più semplice per poterlo fare è tramite il web, il www inventato da Sir Tim Berners-Lee. Al web si accede tramite un browser, ma per accedere ad internet non serve un browser, basta anche un applicazione che si interfaccia con la rete nuda e cruda, con i famosi protocolli di rete: HTTP, TCP/IP e così via. Non entro nel dettaglio dei diversi protocolli, ma basti pensare che per fare una rete basta connettere due computer tra di loro.
Internet come lo conosciamo oggi è una rete enorme di computer, la maggior parte dei quali sono gestiti o controllati direttamente da Google e Amazon. Questo non vuol dire che servono questi due per andare su internet, ma solo che internet funziona molto bene perché G. e A. tengono molto alla manutenzione dei loro computer che sono connessi in rete.
Se, per esempio, volessi pubblicare il mio sito jaack.me su internet senza bisogno di loro due, potrei benissimo aprire le porte dell’interfaccia di rete sul mio computer di casa, associare il mio dominio jaack.me all’indirizzo IP fisso che il provider di servizi di internet (nel mio caso TIM) mi fornisce, e dire a tutti gli altri computer che in quell’indirizzo c’è il mio sito, così che tutti possano trovare i contenuti che tengo sull’hard disk del mio computer quando navigano in rete.
Però non lo faccio. E non lo faccio perché non curo molto il mio computer, e non ho un generatore autonomo di corrente, quindi se ‘entra’ un virus o va via la luce, nessuno potrà vedere il mio sito finché non metto a posto le cose.
Quindi quasi tutti usiamo piattaforme cloud, ovvero infrastrutture di rete ‘confezionate’ e pronte per reggere siti web e app anche molto grandi. Perché ci conviene, e perché rende internet un posto permanente, in cui c’è la minima perdita di dati possibile.
L’esistenza delle app
Tenendo presente che i siti web sono delle interfacce di contenuti che sono su computer che parlano con altri computer, si può passare alle app, che sono delle interfacce di siti web che funzionano molto meglio su sistemi specifici. Che si integrano alla perfezione con dispositivi specifici, ma che c’è bisogno di un lavoro extra per attuare questa integrazione.
Ecco, oggi la realtà è leggermente diversa, nel senso che molte app nascono prima su mobile che sul web, quindi la nostra percezione è che il contenuto si sia spostato dal web al mobile, ma la verità è che si è spostata solo l’interfaccia: il contenuto rimane nei computer, i cosiddetti server.
Le app sono un po’ meno libere del web, e ancor meno di internet. Per fare un’app si possono usare i linguaggi di programmazione comuni, oppure quelli specifici per sistemi operativi. Più un’app è conforme alle specifiche di un sistema, più è veloce e ottimizzata, e migliore sarà l’esperienza utente. Se un’app gira su tutti i sistemi e dispositivi ma è lenta e poco ottimizzata, nessuno la userà. Ed è questo che ha portato tutti gli sviluppatori di software a sforzarsi sempre di più per sviluppare app dedicate a sistemi operativi specifici e non ad altri.
Sapevate che Microsoft Office gira meglio su macOS che su Windows, nonostante a sviluppare la suite di app sia la stessa Microsoft, proprietaria di Windows? Questo è uno dei paradossi della tecnologia contemporanea, per cui sono più importanti le app (software di alto livello) dei sistemi operativi (software di basso livello). Microsoft sceglie di impegnare più energie nello sviluppo di app su macOS, che è un sistema operativo concorrente, perché quest’ultimo ha una struttura migliore, e non conviene ripartire da zero riprogettando Windows con una struttura simile. È meglio lasciar perdere e raccogliere utenti ovunque, su qualunque sistema operativo. E qui, come vedete, il punto di vista passa dal computer (che si connette ad internet con un browser) al produttore software (che raccoglie utenti e dati correlati).
Per raggiungere il suo obiettivo, il produttore software deve raggiungere la massima esposizione, e questa è garantita dai distributori, che sappiamo bene essere Google, con il suo Play Store, e Apple, con l’App Store. Non ci sono altri distributori degni di nota. E quindi ecco che una certa app viene ottimizzata per iPhone, e sempre più persone la scaricano perché funziona bene. Certo, il produttore software ha dovuto sacrificare molto tempo dei suoi sviluppatori e ha dovuto limitare alcune funzionalità per rispettare i termini e le condizioni del distributore, ma se questo gli può portare più utenti, ben venga. Però ricordiamocelo bene: il produttore software non ha mai avuto nessun impedimento nel tenere il suo contenuto sui suoi computer e distribuire la propria app tramite il suo sito, che è l’interfaccia (che possiede) del contenuto (che possiede e gestisce direttamente). Se non ha deciso così, è perché lo ha trovato meno vantaggioso, ma non perché non fosse possibile.
E da qui arriviamo all’espressione più complessa, astratta e allo stesso tempo onnicomprensiva dell’app: la piattaforma.
La difficoltà delle piattaforme
Se nel web i protagonisti sono i computer e nelle app sono i produttori / sviluppatori software, con le piattaforme i protagonisti sono gli utenti. Per semplicità di ragionamento, mi limiterò a considerare il caso dei social network, che sono la più evidente e ricorrente espressione del concetto di piattaforma.
Quando un utente entra in una piattaforma, vi può accedere sia dal web che dall’app: la piattaforma, quindi, è l’astrazione più generica del contenuto di cui parlavo prima. Un utente può essere sia una persona, ma anche un’app, che usa dei dati o funzionalità della piattaforma per funzionare a sua volta. Deve accettare altri termini e condizioni, e lo fa perché è più vantaggioso, perché in un colpo solo può trovare tutti gli utenti di cui ha bisogno e può gestirli in maniera semplice e immediata. Non ha bisogno di creare una rubrica dei contatti, perché c’è già: è la lista degli amici. Non ha bisogno di controllare tutti i siti di informazione per aggiornarsi: saranno le pagine più interessanti a ‘mostrarsi’ in base alle proprie preferenze. Ecco, anche qui c’è tanta convenienza, però si potrebbe sempre fare tutto a mano, o fare di meno.
Gli utenti nelle piattaforme, così come le app nei canali di distribuzione, decidono di far parte del sistema perché è più conveniente. Ma non sono costretti. Come spiegato all’inizio, internet è libero, e non è moderato. Però se si vuole una cosa bisogna cercarla per bene. App e canali di distribuzione, invece, sono più facili, automatizzati. Ma questa rapidità di connessione è proprio il motivo per cui oggi siamo qui a discutere di come internet può essere cambiato.
Google e Apple hanno rimosso Parler (non sai perché? Leggi qui) dai propri canali di distribuzione, per gli stessi motivi per cui Facebook o Twitter (o altri social) hanno sospeso l’account di Trump: non solo (banalmente) perché incitava alla violenza, perché questo è ovvio, ma perché queste Big Tech sono diventate consapevoli che per questi casi i loro algoritmi hanno dei difetti, dei grossi difetti. Quegli stessi algoritmi che hanno promesso efficacia di connessione (suggerimenti di contenuti e di pubblicità), sono stati sfruttati così bene che gli sfruttatori sono risultati fuori controllo.
È questa, secondo me, la chiave di Volta: i problemi di moderazione non sono dei mali inevitabili del progresso tecnologico, bensì un tentativo di tenere a bada le conseguenze di una serie di decisioni basate sull’imperativo di internet in quanto tale: connettere tutto il mondo, a costi ridotti, senza limiti e barriere di sorta.
Internet si sta scontrando con se stesso, e a pagarne le conseguenze sono le Big Tech che, per loro fortuna, hanno le spalle molto larghe per poter attutire i colpi e, si spera, per porre fine a questa battaglia una volta per tutte.
Grazie per essere arrivati fin qui, il vostro supporto conta molto per me. Se vi ho aiutato in qualsiasi modo a capire meglio la situazione, vi chiedo di dimostrarmi un piccolo segno di affetto con una donazione. Questa newsletter la scrivo con la passione di chi non smette mai di informarsi e fa dell’informazione il proprio lavoro, in maniera disinteressata ed il più possibile imparziale.
Al prossimo mese!
P.S.: sono sempre disponibile a discussioni sugli argomenti che tratto (e anche su altri) su Twitter, il mio user è iJaack94. Twitta questo numero o mandami un DM :)
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